La complessità dell’European green deal, con le sue implicazioni economiche e sociali, la varietà degli strumenti in campo, la necessità di coinvolgere tutte le parti interessate, forme di opposizione e resistenza da parte dei movimenti populisti, la questione aperta degli strumenti di policy più indicati per conseguire l’obiettivo delle emissioni zero entro il 2050, il ruolo di leadership dell’UE in materia di politiche ambientali. Vi proponiamo l’interessante articolo di “Affari Internazionali”, con i relativi approfondimenti.
Puntare a essere il primo continente a impatto climatico zero”: è questo l’ambizioso obiettivo che la Commissione europea si è posta nel 2019 lanciando lo European Green Deal. Per andare oltre le dichiarazioni d’intenti, è però indispensabile mettere in atto un insieme di politiche coerenti, che consentano di affrontare la sfida della sostenibilità su un orizzonte di lungo termine e nelle sue varie articolazioni: non solo ambientali, ma anche economiche e sociali. Come sottolineato dalla stessa Commissione, la transizione verso un’economia a impatto zero deve essere anche una “transizione giusta”.
Il nuovo fascicolo di “The International Spectator” raccoglie una serie di analisi e contributi sulla transizione sostenibile e il ruolo del Green Deal Ue
Gestire una trasformazione di questo genere non può prescindere da analisi attente e dettagliate, per valutare l’impatto di quello che è stato fatto e individuare possibili direttrici di intervento future. La complessità delle dimensioni di intervento interessate impone l’utilizzo di una varietà di strumenti: non solo quelli delle scienze pure, ma anche quelli propri delle scienze sociali. È in questa direzione che si muove l’ultimo fascicolo (3/2021) di The International Spectator, dedicato a Europe’s Transition to Sustainability: Actors, Approaches and Policies, curato da Rosa Fernandez, Jonas J. Schoenefeld, Thomas Hoerber e Sebastian Oberthür.
Coinvolgere tutti
Un primo aspetto che emerge con forza è l’importanza di coinvolgere proattivamente tutte le parti interessate (gli “stakeholder”), per evitare di innescare meccanismi di esclusione ed evitare ogni forma di deficit democratico. Da questo punto di vista, un caso interessante è quello delle cosiddette “comunità energetiche”: gruppi di cittadini che si associano per dar vita a iniziative nell’ambito delle energie rinnovabili.
Si tratta di un esempio importante di partecipazione dal basso alla transizione energetica ma che, come sottolinea Rosa Fernandez, non è ancora stato adeguatamente integrato nei quadri regolamentari e di governance energetica dei vari Paesi europei. Su un altro fronte, l’importanza di meccanismi di partecipazione adeguata è evidenziata anche dal caso della decarbonizzazione dei trasporti: se il dibattito è stato a lungo indirizzato dal settore automotive verso una prospettiva incentrata sulla riduzione delle emissioni, negli ultimi anni nuovi attori hanno spinto verso un cambio di paradigma, incardinato sullo sviluppo di nuove infrastrutture per carburanti alternativi.
Di fronte alla transizione incipiente, non sono mancate tuttavia forme di opposizione e resistenza, specie da parte dei movimenti populisti: un caso emblematico è quello dei gilets jaunes, studiato da Thomas Hoerber, Christina Kurze e Joel Kuenzer. Le prese di posizione dei populisti europei verso la questione climatica sono però più complesse rispetto a un puro negazionismo: sembra emergere invece un intreccio tra nazionalismo e ambientalismo conservatore che può essere riassunto nella formula dell’ “ego-ecologia”.
Riforme green, ma zoppe
Quanto queste resistenze politiche possano impattare sulle scelte istituzionali, specie a livello di singoli Stati membri, è ben messo in luce dallo studio di Matus Misik sul modo in cui i paesi dell’Europa centro-orientale si sono rapportati agli obiettivi dell’Unione in materia di energie rinnovabili. Il quadro risulta tutt’altro che univoco, con alcuni Paesi pronti a porsi obiettivi particolarmente ambiziosi e altri che si mantengono ben al di sotto delle raccomandazioni della Commissione.
Quali siano gli strumenti di policy più indicati per conseguire l’obiettivo delle emissioni zero entro il 2050 resta in ogni caso una questione aperta, alla luce dell’analisi proposta da Jonas Schoenefeld, Kai Schulze, Mikael Hildén e Andrew Jordan dei mix di politiche introdotte a livello nazionale dagli stati membri nell’ultimo decennio. Ne emerge che il numero di politiche adottate è cresciuto nel tempo, ma contemporaneamente è diminuito l’ammontare di riduzione delle emissioni previsto in media per ogni singola policy. Per raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero, è quindi indispensabile individuare con urgenza politiche più efficaci.
Salvare le foreste
La capacità dell’Unione di raccogliere questa sfida sarà cruciale per mantenere quella leadership in materia di politiche ambientali che le è attualmente riconosciuta a livello globale, come ben evidenzia la ricerca di Frauke Ohler e Tom Delreux sulla percezione di stati e organizzazioni regionali nei processi di negoziazione in questo ambito.
Da questo punto di vista, il ruolo dell’Unione dovrà necessariamente estendersi al di fuori dei confini degli stati membri. Un esempio importante è quello delle importazioni di legname, regolate dalla European Union Timber Regulation, volta a prevenire l’importazione e l’utilizzo da parte di aziende europee di legname tagliato illegalmente: come evidenziano Simona Davidescu e Aron Buzogany, l’applicazione di queste norme in Romania e Ucraina si è scontrata con forti resistenze da parte dell’industria del legname, ma ha anche beneficiato della crescente mobilitazione di attivisti e Ong capaci di mettere a nudo corruzione e illegalità.
In una prospettiva globale, resta aperto il tema di come garantire una “transizione giusta” anche al di fuori dei confini europei, tenendo conto anche delle iniquità in materia di scambi ambientali che si sono sedimentate nel corso dei decenni tra l’Europa e paesi terzi: secondo Gabriel Weber e Ignazio Cabras, un caso emblematico è quello della Colombia, da cui a lungo sono stati esportati quantitativi ingenti di carbone verso paesi dell’Unione Europea, senza compensare adeguatamente i danni sociali e ambientali che la produzione in loco ha generato nel tempo.