Il 21 luglio 2020, al termine di di complessi negoziati, il Consiglio europeo adottò l’accordo su Next Generation EU – il programma comune di aiuti, mirati a fronteggiare l’emergenza economica post-Covid, più ambizioso e più importante della storia dell’Ue – e sul Quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027. Di seguito una interessante riflessione sulle sfide e sulle prospettive a cura di Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore, presidente dell’Istituto Affari Internazionali, pubblicata su “Affari internazionali”.
Con quella decisione storica, e malgrado le divisioni che pure erano emerse, in sede di negoziato, su alcuni elementi di questo programma, l’Unione europea si è mostrata all’altezza della sfida di una congiuntura drammatica, imprevista e imprevedibile, come quella determinata dalla pandemia sulla economie e le società europee.
Quattro aspetti in particolare del Ngeu meritano di essere sottolineati: la dimensione complessiva delle risorse che saranno mobilitate (750 miliardi di euro, in prezzi 2018); la scelta di ricorrere sia a prestiti (a condizioni agevolate) sia a sovvenzioni; la circostanza che questi interventi straordinari saranno finanziati facendo ricorso a strumenti di debito comune, emessi dalla Commissione e garantiti dal bilancio dell’Ue; ed infine i criteri per la distribuzione degli aiuti che, sulla base di un esplicito riconoscimento del principio di solidarietà, privilegiano proporzionalmente i Paesi più colpiti dalla pandemia, Italia in testa.
Con l’approvazione del Next Generation EU, la Ue ha completato la gamma degli strumenti comuni messi in campo per contrastare gli effetti del Covid. Ma soprattutto con Ngeu la Commissione potrà mobilitare fino a 750 miliardi di euro (390 di erogazioni a dono e 360 di prestiti), attraverso vari strumenti (alcuni nuovi come la Recovery and Resilience Facility, altri già previsti nel bilancio settennale della UE ma rafforzati nella dotazione finanziaria). L’obiettivo dichiarato è quello di stimolare una ripresa sostenibile (tanto sotto il profilo ambientale quanto sotto quello sociale) e inclusiva. E per raggiungere questa finalità il 37% dei fondi del Recovery Plan dovranno essere impiegati per interventi destinati a favorire la transizione energetica e il contrasto del cambiamento climatico, e il 20 % per favorire la digitalizzazione.
La mobilitazione di queste ingenti risorse, che per ora mantiene un carattere temporaneo ed emergenziale, è direttamente collegata al bilancio della UE e al Quadro finanziario pluriennale, assicurando così la coerenza dei nuovi strumenti comuni con quelli già esistenti. E sotto questo profilo è interessante ricordare che, con l’approvazione (intervenuta nei mesi scorsi) da parte di tutti i Paesi membri della decisione sull’aumento del “tetto” per le risorse proprie della Ue (che serviranno per garantire i titoli emessi dalla Commissione), la Commissione ha potuto procedere alle prime tre emissioni dei titoli necessari per reperire sui mercati le risorse per finanziare Ngeu.
Nel corso dei primi mesi del 2021 i governi hanno presentato alla Commissione i loro rispettivi Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr), sulla cui base potrà essere autorizzata l’erogazione dei fondi previsti dal Recovery Plan. Finora (e con la sintomatica eccezione dell’Ungheria) la metà di questi Piani sono stati valutati come coerenti con le finalità del programma comune, e quindi approvati. E le prime erogazioni a valere sui fondi del Ngeu potranno essere effettuate già dalle prossime settimane.
Tutto bene quindi? Sì, per ora; ma con qualche necessaria nota di cautela.
I Piani nazionali, che sono stati complessivamente valutati positivamente perché corrispondenti alle finalità del Ngeu, dovranno ora essere messi alla prova della fase dell’esecuzione. E questo vale soprattutto per l’Italia. Gli interventi sin qui disposti dai due governi che nel nostro Paese si sono confrontati con l’emergenza Covid sono finora soprattutto serviti a tamponare gli effetti della pandemia sulle categorie più vulnerabili o più direttamente colpite dalle conseguenze dell’emergenza. Ora i fondi europei di Ngeu dovrebbero contribuire a rilanciare la crescita e l’occupazione, con investimenti e misure di sostegno alla produttività e competitività.
Il Pnrr, che dovrebbe consentire all’Italia di accedere a questi fondi (209 miliardi di euro più 30 miliardi di fondi nazionali), sulla carta corrisponde ai requisiti e alle finalità (in primis sostenibilità ambientale e sociale e digitalizzazione) che l’Europa chiedeva all’Italia. Ma ora quel Piano dovrà essere attuato nei tempi e secondo le condizioni che il governo ha concordato con le istituzioni europee. E soprattutto gli investimenti previsti dal Piano dovranno essere accompagnati da quelle riforme (in primis pubblica amministrazione, giustizia e concorrenza) su cui da tempo la Ue sollecita risposte concrete dall’Italia.
Non è un mistero che il Recovery Plan, proprio per la sua portata e per la sua carica innovativa, ha suscitato sicuramente entusiasmi, ma anche non poche riserve in altri Paesi della Ue. E non è un mistero che, proprio per la dimensione delle risorse destinate all’Italia (di gran lunga il primo beneficiario) è proprio alle capacità dell’Italia di dare attuazione a quel Piano nazionale che si guarderà per misurare il successo o l’insuccesso del Ngeu.
Il secondo aspetto problematico riguarda non tanto Ngeu in quanto tale, ma la questione di una sua eventuale prosecuzione o addirittura “perennizzazione”. Sono in molti infatti a ritenere (soprattutto nei Paesi dell’Europa meridionale maggiori beneficiari delle risorse dello strumento) che il modello Next Generation EU, e soprattutto il ricorso a titoli di debito comuni emessi dalla Commissione e garantiti dal bilancio della Ue, possa costituire un esempio da seguire per procedere verso un autentico autonomo bilancio comune, dotato di maggiori risorse e magari della possibilità di finanziare misure di stabilizzazione anticiclica su base permanente.
Ma per ora a queste aperture su ipotesi evolutive in materia di “governance” economica della Ue, si sono contrapposte reazioni negative, in particolare da parte di esperti e politici dei Paesi cosiddetti “frugali”. Sono ormai numerosi gli esponenti di quei Paesi che non hanno perso occasione per ribadire il carattere rigorosamente “una tantum” e non replicabile del modello Ngeu, e che hanno anticipato riserve e contrarietà sull’idea di ulteriori riforme della “governance” economica nella direzione di una maggiore condivisione dei rischi.
Infine un’opinione personale. Sono convinto che Ngeu sia un programma di eccezionale importanza ed uno straordinario risultato per l’Europa. Ma ritengo anche che sarebbe prematuro a questo stadio assumere iniziative formali per una riforma in profondità del bilancio della Ue sulla base di quel modello. E sono convinto che in questa fase ci si debba soprattutto concentrare sulla realizzazione delle condizioni necessarie per assicurare il successo del Ngeu. Dopo le elezioni Germania, e dopo avere verificato come e quanto sarà possibile modificare o aggiornare le regole (tuttora vigenti ancorché sospese) in materia di disciplina dei bilanci nazionali, si potrà forse affrontare anche il tema di un ulteriore futuro ricorso al modello Ngeu.